Inspired by… Magnetic Sound Machine plays The Snow Goose (2013)
Lizard Records
1975: I Camel pubblicano quel piccolo scrigno di emozioni intitolato “Music Inspired by The Snow Goose”.
2013: I Magnetic Sound Machine realizzano una lettura personale dell’opera canterburyana arricchendola con testi tradotti dall’opera originale di Paul Gallico.
Ma andiamo con ordine. Dopo due album importanti ma poco fortunati, quali “Camel” e “Mirage”, i Camel pubblicano un concept album strumentale ispirato al racconto di Paul Gallico “The Snow Goose”, scritto nel 1941, ricco di sonorità suggestive, un’opera complessa nella sua pur apparente linearità.
Il racconto di Gallico narra dell’amicizia nata tra il pittore storpio Rhayader, amante della solitudine e della natura, e la piccola Fritha, che si rivolge a lui per curare un’oca ferita (l’oca di neve sarà il simbolo del legame tra i due). Sullo sfondo il clima cupo della Seconda Guerra Mondiale che metterà la parola “fine” alla storia.
Alessandro Caldato (tastiere), Giacomo Girotto (chitarra), Stefano Volpato (basso) e Riccardo Pestrin (batteria) assimilano completamente il lavoro dei Camel realizzando non una pedissequa riproposizione delle musiche della band inglese, ma una personale rivisitazione che comunque rispetta la struttura dell’opera originale. Balzano all’occhio (e all’orecchio), sin dal primo ascolto, la freschezza e la fluidità dei suoni frutto di elevata perizia tecnica e di una registrazione e post-produzione impeccabili. I M.S.M. restituiscono pienamente le melodie ariose e incantevoli realizzate dai Camel, grazie anche all’aiuto di Anna Angelone al flauto traverso, in qualità di ospite, insieme alle voci di Fabio Fantin (narratore e Rhayader), Alessandra Bertin (Fritha) e Antonio Enrico D’Este (Lt. K. B. Oudener).
L’elemento originale apportato dalla band è l’aggiunta dei testi tradotti e adattati dell’opera di Gallico da Stefano Volpato. La loro narrazione è affidata alla voce espressiva e coinvolgente di Fabio Fantin, con l’aiuto dei summenzionati Alessandra Bertin e Antonio Enrico D’Este. Il racconto è quasi sempre inserito all’avvio dei brani, in “solitaria” o sostenuto da suoni piuttosto leggeri e minilalisti, e in alcuni casi portano alla mente le creazioni particolari degli Offlaga Disco Pax. Un appunto che si potrebbe avanzare è forse la loro eccessiva lunghezza in alcuni punti dove si viene a creare un forte distacco tra un segmento “suonato” e l’altro, ma resta da apprezzare l’idea con la quale si porta a conoscenza del pubblico un autore e un’opera che in Italia sono sconosciuti ai più.
Anche la cover dell’album, quest’ultimo registrato in soli due giorni (13 e 14 dicembre 2012), è un tassello importante dell’opera. Essa, realizzata da Claudio Pigozzo (l’opera è intitolata “The lighthouse”), rappresenta in immagine il paesaggio che fa da sfondo alle vicende narrative.
The Great Marsh. La Grande Palude giace sulla costa di Essex. È uno degli ultimi luoghi selvaggi d’Inghilterra. La terra fradicia sembra alzarsi ed abbassarsi, sembra quasi respirare con il ritmo delle maree. È un luogo desolato e solitario, reso ancor più solitario dai richiami e dai versi degli uccelli selvatici, che fanno dei terreni paludosi la loro casa. È con queste parole che prende il via l’opera. Diversamente dal brano originale, qui non troviamo i richiami degli uccelli marini e i cori di Latimer, ma solo il silenzio che avvolge le parole di Fantin. Poi il tocco lievissimo delle tastiere di Caldato crea una sensazione di pace mentre il narratore continua: Lungo uno dei rami della foce del piccolo fiume Elder corre una vecchia murata, un solido argine all’avanzata dell’acqua. Ma a circa tre chilometri dalla costa, una breccia ha permesso al mare affamato di prendere con sé la terra, la murata e tutto ciò che il vicino si trovava. Proprio qui sono appena visibili, sulla superficie dell’acqua bassa, le rovine di un faro abbandonato. Moltissimi anni prima questo faro si affacciava sul mare ed era un segnale luminoso sulla costa di Essex. Ma il tempo aveva spostato terra e acqua… ed aveva scritto la parola fine ad ogni sua utilità. Ed ecco in seguito giungere sulla scena anche la chitarra di Girotto che va ad accentuare la sensazione resa da Caldato, restituendo in note i vocalizzi latimeriani. Intanto Fantin prosegue con il suo racconto: Poco più tardi servì ancora da abitazione ad un uomo solitario. Il suo corpo era deformato, ma il suo cuore era pieno di amore per la natura. È di lui e di una bambina, che venne a guardare oltre il suo aspetto grottesco, che questa storia parla. La vicenda è stata ricostruita da molte fonti e da molte voci, alcune di queste in forma di frammenti, da persone che hanno assistito a fatti strani e violenti. Non è facile individuare la successione dei fatti. Poiché il mare, infatti, ha reclamato il proprio diritto ed ha steso il proprio mantello increspato sul luogo, ed il grande uccello bianco che tutto vide, dall’inizio alla fine, ha fatto ritorno alle terre buie e silenziose del Nord dal quale era venuto. Terminate le sue parole, il brano si apre con l’ingresso delle ritmiche e del dolce flauto di Anna Angelone.
Rhayader. Nella primavera del 1930, Philip Rhayader venne al faro abbandonato. Comprò l’edificio e molti acri di terreno paludoso intorno. Viveva e lavorava lì tutto l’anno. Pittore della natura e di tutto ciò che era selvaggio, aveva deciso di vivere in solitudine. Aveva una gobba sulla schiena ed era storpio: il suo braccio sinistro era piccolo e ricurvo, come un artiglio. Spesso, la deformità alimenta il rancore. Ma Rhayader non odiava, amava la vita, gli uomini, gli animali, in special modo gli uccelli selvatici, e la natura. Aveva superato il proprio handicap, ma non riusciva a sopportare gli sguardi, il timore, il rifiuto delle altre persone per il suo aspetto. Dopo aver molto viaggiato, aveva deciso di ritirarsi da un mondo al quale non poteva prendere parte come tutti gli altri uomini. Molto leggero anche l’avvio del secondo brano dove troviamo il narratore Fantin coadiuvato ancora una volta, per un tratto, dal tenue suono espressivo di Caldato. Poi, sulla scia dei Camel, il flauto folk-sognante di Angelone apre le danze. Notevole e preciso il lavoro svolto dal basso di Volpato (già “compagno” del flauto in precedenza) e dalla batteria di Pestrin, a loro è affidato il compito di creare trame ritmiche sulle quali flauto, chitarra e tastiere dispiegano le loro armonie idilliache.
Rhayader Goes to Town. E i Magnetic Sound Machine divennero cattivi (non completamente)… È Caldato/Bardens ad indicare la via con il suo rapido arabesco, con Pestrin/Ward che “riscalda le pelli” prima di iniziare la sua cavalcata. Ottimo il lavoro solista alla chitarra di Girotto e il pulsare di Volpato al basso. Poi un deciso cambio d’umore ci proietta verso le sonorità delicate espresse nei primi due brani, prima di ritornare allo stato d’animo iniziale (leggermente indurito), in cui la palma del protagonista spetta soprattutto a Girotto. Pausa per Fantin. Ferma restando la paternità del brano dei Camel, non si può non riconoscere la personalità della band (soprattutto) in questo brano.
Sanctuary. Nel suo ritiro, Rhayader aveva lo studio dove dipingeva ed una barca che conduceva, anche per giorni, con straordinaria abilità tra le pozze della palude ed il mare per fare schizzi e scatti fotografici. Era amico di tutte le cose selvagge, e queste lo ricambiavano con la loro amicizia. In un recinto vicino al proprio studio offriva riparo e cibo agli uccelli selvatici, specialmente ai migratori, che in ottobre scendevano dalle terre del Nord. Anatre ed oche selvatiche potevano contare, ogni inverno, su di un rifugio e sulle cure amorevoli di Rhayader. Le creature selvatiche erano al sicuro dal freddo, dalla fame, dai cacciatori: le aveva raccolte, accudite e curate in quel piccolo santuario. Loro lo conoscevano e si fidavano di lui. E questo rendeva Rhayader felice. Interprete principale del brano questa volta è la tastiera di Caldato, una sorta di dolce carillon. Nella prima parte crea il sottofondo poetico per il ritorno di Fantin, poi s’intreccia con l’altrettanto soffice e gradevole suono della chitarra di Girotto. Una soluzione molto più eterea di quella dei colleghi inglesi.
Fritha. Una mattina di novembre, tre anni dopo l’arrivo di Rhayader, una bambina venne al faro. Tra le sue braccia portava un ferito. Dopo queste parole il morbido arpeggio di Girotto (lievemente più rallentato rispetto a quello di Latimer) entra in campo e ci resta sino alla fine del brano. Non aveva più di dodici anni, magra e tutta sporca, nervosa e intimidita come una creatura selvatica. Era terrorizzata dall’uomo spaventoso che era venuta a cercare. Ma più grande della sua pura, era il bisogno di ciò che teneva in grembo. Perché, nel suo cuore, la bambina serbava una voce, sentita da qualche parte nella Palude… l’orco che abita il faro ha il potere magico di curare le cose ferite. Ed ecco il primo incontro tra i due protagonisti della storia: “Che c’è, bambina?”. La cosa era un grande uccello bianco, immobile. C’erano delle macchie di sangue sulle piume. La bimba lo depose sulle braccia di Rhayader. “L’ho trovato, signore. È ancora vivo?”. “Si, penso di si; è un’oca di neve, viene dal Canada. Ma come può essere arrivata sin qui? Guarda, le hanno sparato”. “La puoi guarire, signore?”. La voce tremolante e impaurita della bambina è di Alessandra Bertin mentre Fantin impersona anche Rhayader. Dimenticata la paura, la bambina guardava affascinata quell’uomo al lavoro. Mentre curava l’oca di neve, Rhayader le raccontò una storia meravigliosa. Ed ecco la storia, adagiata sul prato sognante di chitarra e tastiera: L’oca non aveva che un anno. Era nata in una terra lontana a Nord, oltreoceano. Migrando verso sud per sfuggire al rigido inverno, si era imbattuta in una terribile tempesta. Per interi giorni era stata in balia dei venti prima di riuscire a liberarsi. Il suo istinto la guidò a sud, ancora, ma ormai si trovava sopra un’altra terra, strana e sconosciuta. Esausta, era discesa per riposare in una verde ed accogliente palude, per poi venire colpita da un cacciatore. “Davvero una brutta accoglienza per una principessa in visita. La Principessa Perduta, così la chiameremo. E qual è il tuo nome, bambina?”. “Mi chiamo Fritha, signore”. Lo stato di sogno continua sino alla fine del brano con gli innesti di flauto, basso e batteria.
The Snow Goose. Come accaduto con Rhayader Goes to Town, anche in questo caso l’assenza di Fantin porta più “movimento” al brano (meno accentuato rispetto al caso precedente). È Girotto ad introdurci al brano con un solo coinvolgente nella sua pur apparente semplicità esecutiva (segue quasi fedelmente il percorso indicato da Latimer). Col trascorrere dei secondi si aggiungono le ritmiche irregolari di Pestrin, l’avvolgente tastiera di Caldato e il sostegno concreto del basso di Volpato. Poesia in musica.
Friendship. L’oca di neve guarì in fretta. Già in inverno, un po’ zoppicante, stava nel recinto con tutti gli altri uccelli. Aveva in qualche modo legato con le oche zampe-rosa ed ormai era entrata in armonia con Rhayader, grazie alle sue amorevoli cure. Fritha, la bambina, veniva a farle visita spesso. Aveva superato la paura di Rhayader… la sua immaginazione era come rapita dalla presenza di questa strana Principessa, venuta da una terra lontana, oltreoceano. Cambio di “partner” per Fantin: la sua narrazione è sorretta dal basso sinuoso di Volpato che rende l’atmosfera più misteriosa. Terminato il recitativo, tastiera e flauto rendono inizialmente più ariosa la situazione mentre, in seguito, si nota quasi un velo malinconico.
Migration. Un mattino di giugno, un gruppo di oche zampe-rosa, grasse e ben nutrite durante l’inverno al faro, risposero al richiamo più forte e inesorabile dell’istinto migratorio. Si alzarono pigramente nel cielo. Con loro, splendente nella luce del sole, c’era anche l’oca di neve. In quel momento, Fritha era al faro. “Guarda, Rhayader, guarda la Principessa! Se ne sta andando via?”. “La Principessa sta tornando a casa. Ascolta, ci sta dicendo addio”. Nel cielo limpido risuonavano i richiami lamentosi delle oche zampe-rosa, ma su questi si stagliava, più alta e chiara, la nota dell’oca di neve. Lo stormo si dispose a forma di stretta “v”, si diresse verso nord e scomparve all’orizzonte. Solo sul finire della narrazione la band “mette mano” ai propri strumenti. È l’organo seventies di Caldato a dare il via al vivacissimo ordito fatto soprattutto di tempi dispari e soli dinamici. Ottime le prove dei singoli in un disegno corale notevole impreziosito da un lungo frammento spinto di “marca propria”. La versione originale dei Camel è arricchita dai vocalizzi di Latimer che donano una musicalità relativamente più leggera e spensierata rispetto al brano dei M.S.M. (in questo caso è la chitarra di Girotto a “fare le veci” di Latimer).
Rhayader Alone. Inversione di schema: la narrazione passa in coda al brano. Per circa due minuti chitarra e tastiera, ricalcando pienamente l’atmosfera creata da Latimer e Bardens, s’intrecciano con suoni teneri e malinconici rendendo in note lo stato d’animo del protagonista rimasto solo: Con la partenza della Principessa Perduta, Fritha non venne più al faro e Rhayader imparò nuovamente il significato della parola solitudine.
Flight of the Snow Goose. A metà ottobre, il miracolo avvenne. Rhayader era al faro come sempre. In lontananza, dalla distesa del mare, il suo orecchio catturò qualcosa. Una nota alta e chiarissima. Rhayader non poteva avere dubbi: guardò in su, verso ovest. Dapprima vide un piccolissimo puntino all’orizzonte, poi una sorta di miraggio descrivere ampi cerchi in volo sul faro. Finalmente, posatosi a terra, il sogno divenne realtà. Si avvicinò a Rhayader, desiderosa di cure affettuose, come non fosse mai andata via. Era l’oca di neve. “Dite, dite a Fritha… la Principessa Perduta è tornata… Dite questo a Fritha, la Principessa Perduta è tornata!”. Un crescendo sonoro accompagna il ritorno dell’oca di neve. Inizialmente troviamo la chitarra ronzante di Girotto avvolta da un tappeto elettronico e scrosci di piatti, poi arriva Volpato con il suo basso sinusoidale e, infine, Pestrin, prima ticchettante, poi “battente”, mentre la figura narrante di Fantin ricorda sempre più da vicino Max Collini degli Offlaga Disco Pax. Poi il brano assume sempre più luce con, a tratti, richiami quasi folkeggianti.
Preparation. Un minuto di silenzio. Il solo Fantin in scena: Il tempo passava nella Grande Palude segnato dal lento incedere delle stagioni e, per Rhayader, dal ritorno e dalla partenza dell’oca di neve. Il mondo al di fuori ribolliva, ad un passo dall’esplosione che di lì a poco avrebbe sconvolto la quiete anche nella Grande Palude. Ma ancora nulla poteva sfiorare il curioso ritmo naturale in cui erano caduti Rhayader e Fritha, benché la bambina ormai fosse cresciuta. Quando l’oca di neve era al faro, Fritha veniva spesso a trovare Rhayader, fino a passar la maggior parte di tempo con lui. Ma quando la Principessa ripartiva, era come se una sorta di muro si alzasse tra loro, e lei non veniva più al faro. Poi un morbido arpeggio senza fine si affianca al narratore: Nella primavera del 1940 gli uccelli migrarono presto dalla Grande Palude. Il mondo era a ferro e fuoco. Il primo maggio Fritha e Rhayader assistevano alla partenza degli ultimi migratori. Anche l’oca di neve si era alzata in volo, le grandi ali spiegate, ma stranamente sorvolava il faro a bassa quota. Uno, due, tre giri… poi ridiscese a terra, nel recinto. “La Principessa rimarrà, non andrà più via. La Principessa non è più perduta – questa è la sua casa ora, per sua stessa volontà”. Di colpo, l’incantesimo tra Rhayader e Fritha si ruppe. “Devo andare, addio. La Principessa rimarrà, non sarai più tanto solo ora”. Così disse Fritha, e se ne andò. A seguire si verifica anche il ritorno del flauto di Anna Angelone d’umore simile al compagno. Il suono diviene sempre più corposo col trascorrere dei secondi grazie anche all’intervento delle ritmiche e della tastiera. Ad un tratto la chitarra, e con essa l’atmosfera, cambia tono diventando più inquieta (i Camel riescono ad accentuare ancor più questa sensazione grazie a cupi vocalizzi e suoni sintetici), rispecchiando il testo che sopra vi è posato: Maggio volgeva al termine, e così pure il giorno, quando Fritha si decise di tornare al faro. Trovò Rhayader sul pontile. Stava preparando la sua barca per un lungo viaggio. I suoi occhi scuri, di solito così gentili, bruciavano di una luce nuova. “Philip! Te ne vai?”. Rhayader doveva andare a Dunkirk, cento miglia ad ovest, oltre il canale della Manica. L’esercito britannico era intrappolato sulla costa francese, sotto il fuoco tedesco. Il governo aveva rivolto un appello a chiunque disponesse di un’imbarcazione, per poter trasportare i soldati dalle acque basse delle spiagge alle navi al largo. Con la sua barca, Rhayader poteva portare almeno sei uomini. Fritha si sentì morire. “Perché, perché devi andare? Non tornerai indietro”. Era bella e selvaggia come la natura in cui era cresciuta, non poteva capire la guerra. Così Rhayader trovò le parole per lei. Cresce l’angoscia “musicale” di pari passo con il testo: “Molti uomini sono in pericolo, Fritha, proprio come gli uccelli feriti che troviamo nella Palude e che portiamo nel santuario. Su di loro volano aquile e falchi d’acciaio e non hanno rifugio da questi rapaci. Essi sono perduti, in tempesta, proprio come la Principessa che hai trovato nella Palude e hai portato qui, molti anni fa. Hanno bisogno di aiuto, come ne aveva bisogno la Principessa… ecco perché devo andare”. Fritha guardò Rhayader, e non aveva più paura del suo aspetto. “A presto, Fritha. Baderai al faro fino al mio ritorno?”. “Dio abbia cura di te. Avrò cura del faro”. Era ormai notte. All’improvviso, dietro di sé, Fritha sentì uno sbattere d’ali nell’oscurità. Alla luce della luna poté scorgere l’oca di neve alzarsi in volo verso ovest, dietro la barca di Rhayader. Un urlo le uscì dalla gola: “Veglia su di lui, veglia su di lui Principessa!”.
Dunkirk. Aria di guerra. L’insistente pulsare del basso ricorda le esplosioni sul campo mentre successivamente la batteria ci lascia immaginare i soldati in marcia. Nel frattempo l’organo crea un tappeto meno fosco, di “speranza”, con la chitarra, inizialmente un po’ floydiana, che diventa poi sempre più decisa, sino alla fuga nel momento in cui la batteria smette di marciare e inizia a galoppare. Nuova grande prova dei Magnetic Sound Machine.
Epitaph. Cala la tristezza, Rhayader è morto. Sono la voce sommessa di D’Este e il dolente arpeggio di Girotto ha comunicarci la cattiva notizia. Dal diario di bordo del capitano Oudener, quarto giorno dell’evacuazione di Dunkerque: “Tra gli uomini gira una voce, ormai una leggenda. Si vocifera che chiunque, sulle spiagge di Dunkerque, scorga una grande oca bianca, possa ritenersi salvo. Molti di coloro che sono riusciti a raggiungere le nostre navi al largo, per poter essere riportati a casa, dicono di averla vista. Non ci ho mai creduto, sino ad oggi. Questa notte abbiamo avvistato una piccola barca, ormai un relitto alla deriva, crivellato dalle mitragliatrici. All’interno vedemmo un corpo, e vicino a questo, una grande oca bianca. Ci avvicinammo, ma a pochi piedi dal relitto, l’oca si alzò in volo… fece l’inferno, per non farci avvicinare. E fu la nostra salvezza. Proprio allora la vedetta urlò: una mina era sulla nostra rotta, appena sotto il livello dell’acqua. Virammo immediatamente, e la facemmo brillare. Il relitto, e il corpo con esso, purtroppo affondarono. L’oca si era alzata in volo: descriveva degli ampi cerchi in aria, sopra la barca. Sembrava… un saluto, un ultimo addio. Uno, due, tre volte, poi si diresse ad est”. I Camel caricano maggiormente l’atmosfera cupa utilizzando i rintocchi di una campana funebre e l’elettronica.
Fritha Alone. La Principessa Perduta era diretta alla Grande Palude. Fritha, rimasta al faro come promesso, tuttavia già sapeva. Il suo stesso sangue sentiva che Rhayader non avrebbe fatto ritorno. Il breve segmento musicale è occupato dal suggestivo e struggente piano di Caldato il quale descrive perfettamente la malinconia che alberga nel cuore di Fritha.
La princesse perdue. Un giorno, al tramonto, Fritha era al faro quando distinse il ben noto richiamo, alto, chiarissimo nel cielo. Nessuna vana speranza le riempì l’animo. La Principessa Perduta, la creatura selvaggia e meravigliosa che le aveva donato un amico, era ora tornata con il suo messaggio di addio. Non avrebbe mai più visto Rhayader. Solo per un momento, sembrò che l’oca di neve volesse posarsi a terra. Ma la sfiorò soltanto, poi si levò più in alto, in ampie e graziose spirali intorno al vecchio faro. Guardandola, Fritha non vide più l’oca di neve ma lo spirito di Rhayader, venuto a darle un ultimo addio, prima di partire per sempre. Uno, due, tre giri… si alzò ancora più in alto. E così, la Principessa Perduta scomparve all’orizzonte, verso nord. Anche in questo caso la narrazione “preferisce” non essere accompagnata dalla musica, dando modo all’ascoltatore di partecipare simbioticamente all’ultima commovente scena. L’esecuzione seguente descrive nuovamente l’incontro: dapprima il ritmo e i suoni più decisi sembrano disegnare il richiamo e il ritorno dell’oca di neve, poi le armonie dolci ed emozionanti rappresentano l’ultimo saluto del protagonista alla giovane amica. Un grande plauso ai M.S.M.: sono riusciti a restituire completamente il doppio stato d’animo sapientemente creato dai Camel circa quarant’anni prima.
The Great Marsh. E tutto finisce. La desolazione s’impadronisce della Grande Palude. I suoni minimalisti di tastiera, basso, chitarra e piatti tratteggiano il vuoto che avviluppa l’area del faro abbandonato dai tre protagonisti.
Possiamo parlare dunque di un esperimento interessante e ben riuscito, veicolante un messaggio ben chiaro: non sempre chi “fa cover” si limita a “fare il compitino”.
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