Marble House – Embers

MARBLE HOUSE

Embers (2018)

Lizard Records

 

21 settembre 2018: nuovo esordio in casa Lizard Records. La sempre attenta etichetta italiana, in quest’occasione, concede piena fiducia ad una giovane band bolognese: Marble House. Fiducia ampiamente ripagata.

Embers è il primo lavoro dei Marble House, un album caratterizzato da massicce dosi di inquietudine e incanto, tanto pathos e tanta energia, tanta voglia di stupire e di “farsi sentire”, che trovano il perfetto compimento soprattutto nella lunga traccia finale. È un lavoro che si ispira ai ’70, nelle sue trame imprevedibili e nell’utilizzo allo stesso tempo emancipato e calibrato di strumenti quali Hammond, Farfisa e mellotron (ma non solo), e si compie nel nuovo millennio, tra le tormentate e suggestive traiettorie di marca Radiohead (tra gli altri).

Embers è il frutto di un percorso che, in studio, li ha visti entrare in cinque, Matteo Malacarne (voce, basso), Daniele Postpischl (tastiere, chitarra, piano), Giacomo Carrera (batteria), Filippo Selvini (chitarre) e Leonardo Tommasini (voce, tastiere, piano), e che, dopo l’imprevisto abbandono di Selvini nel bel mezzo delle registrazioni dell’album, li ha comunque visti portare caparbiamente a termine il lavoro.

Le prime battute di Embers sono di quelle che lasciano il segno. Tutto prende il via dagli inquieti ricami di chitarra, batteria e voce, dal forte sentore Radiohead, per deflagrare poi, all’improvviso, con una gragnuola di colpi alla Accordo dei Contrari che lascia frastornati: è To Makes Ends Meet. A seguire anche i “tasti” tipicamente settantiani della band partecipano alla festa apportando colori caldi, prima di piombare in un gorgo sinistro che rimanda ai romani Ingranaggi della Valle. Momenti tesissimi che proseguono senza soluzione di continuità, un’irrequietezza sonora a tratti crimsoniana di alto livello che trova negli equilibri vocali della coppia Tommasini/Malacarne il perfetto “lato buono”. E infine, altrettanto improvvisamente, dopo l’assolo di Postpischl, tutto si placa. Arpeggi leggiadri e un canto quasi ultraterreno s’impossessano della scena senza essere scalfiti dai poco convinti tentativi di “rivolta” delle ritmiche.

L’iniziale schitarrata vivace e battistiana della strumentale Reverie è fuorviante. Basta poco per capirlo, tutto si palesa quando il basso di Malacarne e la batteria di Carrera premono sull’acceleratore e i compagni decollano (su tutti l’organo di Tommasini). Le pelli tiratissime di Carrera fungono da perfetto fondale per il susseguirsi di galoppate isteriche e frammenti ariosi.

Tra tenui arpeggi e melliflui scambi vocali giunge la delicata Riding in the Fog. L’atmosfera resta tale lungo tutto il percorso, nonostante sia “interrotta” da alcuni segmenti compatti in cui sono le distorsioni a tirare maggiormente, cercando di far uscire dai binari i lunghi frammenti luminosi che lasciano trasparire momenti alla Mogwai o alla Genesis. […] All I am is washed ashore by waves / And all this time afraid to go astray / Taken hostage paying for my deeds / A ghost rider with no chance to fall asleep […].

È il drammatico percorso a due piano/voce, tutto affidato a Tommasini, a dare il via a The Last 48 Hours. L’intensità emotiva lievita col trascorrere dei secondi grazie anche alle chitarre di Postpischl e raggiunge l’apice quando il vocalist spinge visceralmente al massimo il suo “strumento” facendo decollare il brano ([…] Ohh will you dream of me / When you’re on your own / In my reveries / Ohh will you dream me tonight / I am drowning in these glasses / In this marble house).

Share this last sip, half to me, half to you / Walking in these shades, feel the marble grey / And I just want to feel your ember / close to me burning away / Fiery hair… […]. In coda la band bolognese piazza Marble House, episodio dalla durata imponente di circa 25 minuti. La partenza è di quelle “trascinate” tanto care a Thom Yorke e soci. I tracciati chitarristici proseguono senza fronzoli per alcuni minuti, corredati dai suoni malinconici di un piano che poi fa sua la scena mutando il proprio stato d’animo. È un flusso di suoni e colori elegante, intaccato in parte da una “caduta” in nuovi territori crimsoniani, e successivamente stravolta totalmente da una e vera e propria detonazione, uno “scontro tra titani” che vede in campo Gentle Giant, PFM e Banco, un turbinio in cui i quattro ragazzi danno sfoggio di tutte le proprie qualità tecniche e compositive. Da standing ovation. E dopo lo sfogo tornano le alchimie magnetiche alla Radiohead guidate dalla seducente voce di Tommasini. Manca ancora tanto alla fine e i Marble House hanno ancora molto da dire e lo fanno portando in scena le tenebre: tastiere tetre, suoni “acquosi” e sinistri, chitarre ipnotiche. E dopo un barlume luminoso e poetico sgorgato dai tasti del solito piano, si va dritti verso un finale intenso, aggressivo e a tratti struggente che mette la parola fine ad un esordio discografico da incorniciare.

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