Strategies (2016)
Musea Parallèle
Tutto è nato quasi per caso. Dapprima la passione per la chitarra sbocciata dopo aver scoperto Steve Howe e gli Yes, poi il tuffo nel progressive rock “ascoltato” e le prime acerbe composizioni. La spinta definitiva, però, è arrivata con gli apprezzamenti giunti da parte di personaggi del calibro di Jerry Donahue (Fairport Convention) e Billy Sherwood (Yes): è qui che Jesùs Muñoz ha rotto gli indugi e pubblicato il suo primo lavoro, Strategies.
E Strategies è davvero il frutto di una doppia passione, quella per lo strumento chitarra (nell’occasione Muñoz si muove tra acustica, spagnola, elettrica e synth guitar) e quella per il prog. L’artista spagnolo è melodico e viscerale, è etereo e possente, è sinfonico e mediterraneo, è un po’ Steve Howe, un po’ Franco Mussida e un po’ Steve Hackett: tutto è letteralmente nelle sue mani (con il solo aiuto della batteria di Dioni).
Ad aprire l’album ci pensa When the good man win, una breve introduzione che miscela sensazioni floydiane con un pizzico di Queen, utile per “scaldarsi”. Strategies può iniziare.
Con la lunga suite Recovery, Muñoz decide di fare un compendio di tutte le sue capacità e influenze. É dell’elettronica alla Kraftwerk ad aprire il “volume”, ben presto raggiunta da una chitarra dal tocco Knopfleriano, prima di immergersi in paesaggi western. A seguire “soste” cosmiche e bagliori mediterranei, e ancora giochi di squadra alla PFM (c’è anche il contributo di Dioni alla batteria), tanta melodia e moltissimo altro. Un brano che, in dodici movimenti, racchiude in sé un intero album.
Limpid green mette in scena una serrata lotta tra chitarre. I contendenti sono soprattutto la romantica acustica e le acuminate corde della elettrica. Tra botte e risposte, scontri violenti e riappacificazioni, il brano scorre intensamente sino alla sua conclusione. Arbitro super partes la batteria di Dioni.
Strategies. Tra spensierati fraseggi di chitarre pulite e imponenti soliloqui distorti, sorretti da basi dalle tinte ironicamente reggae e barlumi alla Ivan Graziani, si consuma la title track.
Con Land of Glory facciamo la conoscenza della voce morbida ed eighties di Muñoz (è l’unico brano cantato dell’album). Ad avvolgerlo, come una soffice carezza, troviamo i candidi orditi dell’acustica e i tappeti della synth guitar. Un quadro dalle tinte leggere e calde, con spiragli neoprog. Anche gli assoli distorti di Muñoz si attengono alle linee guida, prima della sfuriata hard finale. One life is not enough to really know what’s up.
Mystery Cruise. Un nuovo capitolo affidato, ovviamente, ai due “mondi” chitarristici. Niente “guerra” ma un lavoro collettivo, batteria inclusa. Policromie sonore che scorrono fluide tra passaggi romantici, frammenti briosi e impennate frizzanti.
Leader indiscusso in The wrong step è l’elettrica di Muñoz con il suo lungo assolo alla Steve Hackett. Comprimari in questo viaggio le altre chitarre, che tessono fili interessanti e cangianti, e le ritmiche, con il lavoro svolto nelle retrovie da Dioni.
Cambio al vertice nella breve Rompecabezas. É una chitarra dai suoni nitidi, vivace e molto calda, la protagonista indiscussa, sulla scia di Riccardo Zappa.
In coda troviamo le sensazioni eighties offerte da Back to the Future. Ancora una volta l’intero parco chitarre mette in mostra le notevoli capacità di Jesùs Muñoz, intrecciandosi o concedendo spazio l’un l’altra. Prima di terminare c’è spazio anche per un simpatico frammento cinematografico. Si chiude così il regalo che Jesus Munoz ha fatto a sé stesso, a sua figlia Laura e a chi saprà apprezzare le sue corde.
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