Nuova Idea – Clowns

NUOVA IDEA

Clowns (1973)

Ariston

 

Per il terzo ed ultimo disco in studio i Nuova Idea vedono un nuovo avvicendamento alla chitarra. Dopo gli abbandoni di Marzo Zoccheddu nel 1971 e del suo sostituto Antonello Gabelli nel 1972, ecco arrivare Arturo “Ricky” Belloni a dare una svolta alla band, soprattutto grazie alla sua voce.

Accanto a Belloni ci sono i quattro fondatori storici della band: Claudio Ghiglino (chitarra, voce), Giorgio Usai (tastiere, voce), Enrico Casagni (basso, flauto, voce) e Paolo Siani (batteria, voce).

Dopo un gran numero di apparizione live, sempre affascinanti e coinvolgenti, l’etichetta Ariston concede la possibilità di registrare il terzo album (ha prodotto anche i primi due lavori del gruppo). Nasce così Clowns, di certo l’opera più matura della band (cose egregie si erano viste comunque anche nei due precedenti lavori).

Tecnicamente è un lavoro ineccepibile con le sue atmosfere cangianti, i cambi improvvisi, soluzioni spesso molto british (vedi Gentle Giant) ma con un background decisamente nostrano.  È ottimo il lavoro alle tastiere di Usai, così come quello di batteria e basso spesso e volentieri martellanti, passando per le chitarre che riescono ad essere affilate e carezzevoli senza mai andare in sofferenza. L’elemento che però distingue quest’album è senza dubbio la voce graffiante e originale di Belloni, per alcuni il punto debole della band, secondo noi invece uno dei punti forti. De gustibus!

Altro “punto forte” dell’album è sicuramente la splendida cover realizzata da Gianni Zanini raffigurante un re e un clown che si affrontano urlanti e una clessidra che si forma tra i loro volti, al suo interno un groviglio di corpi nudi ritrae il trascorrere del tempo.

Clowns si apre con Clessidra. Dopo un avvio irriverente, caratterizzato da un’orchestra “stonata” (ricorda moltissimo l’avvio di Atom Heart Mother di Pink Floyd), le tastiere di Usai danno il via al brano lanciando la sezione ritmica molto carica (notevole la lunga “cavalcata” di Casagni al basso) e le chitarre taglienti alla Semiramis (Usai resta comunque sempre presente e in modo consistente). Considerevoli anche gli stacchi rapidi e le virate improvvise in stile anglosassone. Questi primi minuti molto ben strutturati sono propedeutici al segmento corale onirico seguente, inframmezzato da ulteriori richiami musicali di alto livello. Grande prova corale ed ottimo biglietto da visita per questo terzo album.

L’avvio molto lieve di Un’isola fa pensare a un brano che si svilupperà su corde leggere, quasi una ballad, e così è per i primi due minuti (e sarà così anche nel finale). Poi la svolta: Siani inizia a martellare sul rullante e con lui tutta la band si scatena. Il brano cambia veste e diventa molto aggressivo. E non è tutto. La sorpresa arriva poco dopo con Belloni: la sua voce cattiva e graffiante (quasi un Brian Johnson mediterraneo) squassa l’atmosfera e va ad incastrarsi perfettamente tra le pieghe irruenti degli altri strumenti. Lungo il percorso poi troviamo un nuovo grandioso lavoro svolto dalle ritmiche (Siani straordinario nella sua precisione e fantasia), Usai che volteggia con il suo organo e Ghiglino che regge bene il confronto con i colleghi.

Anche Il giardino dei sogni parte in modo leggero, ma si avverte molto presto una velatura di malinconia ben restituita dalla voce sofferente. Grandiose le impennate di voce e musica alla fine delle prime due strofe. Ai due minuti il brano diventa più arioso, con la voce quasi beffarda accompagnata da una dolce chitarra e una presenza delicata degli altri strumenti. Poi il brano esplode con un impetuoso assolo di chitarra seguito da una netta sterzata guidata da batteria e piano. Gli ultimi minuti riprendono la parte iniziale. Da evidenziare il testo molto poetico reso intenso e toccante dall’espressività di Belloni: Una grande stanza in cielo avrò per me / fatta di cristalli che ho rubato al mare […] / Grappoli di sole strapperò per te / ti darò la pioggia per lavarti e poi / ti darò i figli per far contento me […] / Sulla terra scenderò ma avvolto in un bianco velo / nel mio regno tornerò nascosto nell’alto cielo / lì ti aspetterò […].

Clown. La title track è l’episodio più complesso e interessante dell’album. Si inizia a spron battuto con bei giochi di organo (stuzzicanti le “note in caduta”) ben sostenuti da batteria e basso. Poi, con l’ingresso di Belloni, il rapporto empatico voce-musica diventa dominante: quando Belloni spinge gli strumenti non si tirano indietro, viceversa, quando la voce si “calma”, lo stesso accade per i colleghi. E, tra un divertissement di synth e varie evoluzioni collettive, trova spazio anche un coro di fanciulli. A metà percorso il brano prende luminosità e dolcezza, nonostante Siani continui, spesso e volentieri, a “martellare”. C’è spazio anche per un bel frammento sinfonico, prima di un nuovo break in cui, tra gli altri, troviamo un sax che si diverte a jazzare e momenti tribali. Gli ultimi minuti, grazie all’ennesima virata, ripercorrono i primi momenti del brano. Particolare il testo che racconta l’ascesa di un clown: Sono nato nella pista di madame Cornelia / ho imparato a camminare sopra ad una palla / “Coraggio figliolo mi sembri un tipo in gamba” / Chi sa c’era gente, forse troppa, quella prima volta / ma la voce per fortuna non se n’era accorta / “Coraggio figliolo vedrai ce la farai” […] / Ho vissuto in un giorno più di mille anni / ho trovato / la mia vita dentro a questi panni / “Hai visto, figliolo la gente ti ha capito” / “Puoi portare la tua arte per il mondo tu sei grande” / Quanta gente che mi applaude, che mi adora / il più forte sta gridando il mio nome / “Ma tu sai che il mondo può esserti amico ma sempre rotondo” / Ma io sarò ancora più grande, forte come sempre […].

L’album si chiude con Una vita nuova, il brano più leggero dell’opera. Su di un soave gioco di chitarra acustica si distingue il canto singhiozzato di Belloni. Tutto molto sognante, anche quando entra in scena Siani con una sorta di tamburo battente lento. Chiusa la parentesi vocale, il brano passa nelle mani di Usai con un crescendo di piano e synth, prima di chiudere il cerchio con il richiamo all’avvio “stonato” di Clessidra.

Altra pagina importante e, purtroppo, sfortunata del prog italiano (all’epoca l’album non ebbe molto successo e decretò praticamente la fine della band). Un disco da riscoprire e rivalutare senza ombra di dubbio.

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