The Magic Park of Dark Roses (2018)
Avanguardia Convention
Riecco, ancora una volta a tre anni di distanza dal precedente lavoro (Back to Earth), gli Old Rock City Orchestra. Diventato un trio, dopo la defezione di Giacomo Cocchiara, il progetto umbro ha tenacemente proseguito il suo percorso artistico e The Magic Park of Dark Roses è la prova tangibile della loro evoluzione.
Il nuovo concept album di Cinzia Catalucci (voce, tastiere, percussioni), Raffaele Spanetta (chitarra acustica ed elettrica, basso, voce, tastiere aggiuntive) e Mike Capriolo (batteria, glockenspiel, percussioni), con la presenza degli ospiti Laurence Cocchiara (violino in The Fall e Visions) e Chiara Dragoni (flauto in Visions), ci mostra il lato più oscuro della band. Attraverso atmosfere dark (un “nero elegante” che non si discute), un prog rock possente e sinfonico, della sana psichedelia e dei testi onirici e simbolici ispirati alle opere di Kalina Doncheva, la band si immerge in un viaggio allegorico che prosegue e amplia il tema dell’“Io” e del “Mondo-Natura” affrontato con Back to Earth.
Prendendo il via dalla title track, ci si addentra nel “parco delle rose scure”, un giardino simbolico, che assumerà anche le dimensioni di un bosco e di una foresta. Una visione quasi cimiteriale di una natura “ferita” e disabitata, animata soltanto da rose scure, che si riveleranno, infine, la sola chiave di lettura e di senso dell’intero “concept”. E tra smarrimenti, incontri con figure particolari, momenti riflessivi e rituali magici, si giungerà, grazie anche all’artwork di Lucy Ziniac e le foto di Francesca Mancinetti, elemento che s’impone come fondamentale guida visiva, all’auspicabile rinascita terrena, un risveglio spirituale, un’“alba dorata”, quella “Golden Dawn” che ritroviamo come brano finale.
There’s a place where no one lies / And maybe no one cries / Where you go running wild / And everything’s alright / There’s a place nobody knows / Where everybody goes / That’s a magic park / The Magic Park of Dark Roses […]. Gli Old Rock City Orchestra partono subito forte. Dopo una breve accoglienza con un intervento alla Van Der Linden della Catalucci, Capriolo mette subito le cose in chiaro: le “chiavi ritmiche” di The Magic Park of Dark Roses sono sue. Bravi i due colleghi a seguirlo. E, tra frammenti cantati un po’ ledzeppeliniani e “soste” affidate ai tasti bicolore della “donna di casa”, il brano si fa avviluppante con i vocalizzi ammalianti di Cinzia per poi deflagrare e “riavvolgersi”.
Prog. Basterebbero quattro lettere per descrivere in modo esaustivo Abraxas, episodio in cui compare l’entità che rappresenta la mediazione fra l’umanità e il dio Sole (Abraxas / Through the night / Show the light / Abraxas / Come what may / Show the way […]). Tre minuti abbondanti per condensare e, soprattutto, personalizzare tanta roba (dai Semiramis al Rovescio della Medaglia, dal Banco del Mutuo Soccorso agli Uriah Heep, passando per la PFM de “La carrozza di Hans”). Sono in tre (+ voce, ma sempre tre restano!) e spingono per cinque. Chapeau.
Sfacciatamente floydiana l’ipnotica The Fall, con quella brevissima e semplicissima sequenza ripetuta lungo tutto il percorso che omaggia “Child in Time” dei Deep Purple. É un viaggio onirico interminabile, con un bel tocco dato dal violino di Cocchiara nel finale. E la voce magnetica della Catalucci, in un contesto del genere, è perfetta.
Visions. In un’atmosfera poetica e malinconica che riporta alla mente Fabrizio De André, l’intrecciarsi di flauto (suonato da Chiara Dragoni), violino (nuovamente Cocchiara) e chitarra acustica, con la delicatissima voce di Cinzia che vola eterea, é sublime. É la stessa Catalucci a suonare la carica nella seconda metà dell’episodio, seguita fedelmente e con aggressività da tutti gli effettivi. E nello scenario onirico notturno, tra stelle che sorridono nel cielo e foglie che cantano, un mago invita alla scelta: To walk alone into the night / Or turn around and see the light.
Paesaggio incantato quello di A Night in the Forest, con un pizzico di The Doors che non guasta. Un sottofondo ciclico e “saltellante” fatto di pochi ma azzeccati interventi dei tre, mentre la voce profonda di Spanetta lascia riposare la Catalucci e una “profetica” donna vestita di nero ci ricorda che “Life is a nightmare to live”.
Tuffo in piena era sixties con The Coachman (il cocchiere-Caronte) e la sua andatura frizzante, sanguigna, un po’ alla Steppenwolf. É ancora Spanetta a mettere la sua voce al servizio della band, tra chitarre ruvide, pelli sempre in tensione e brevi e precisi interventi d’organo.
Tocca alla granitica A Spell of Heart and Soul Entwined proseguire il viaggio di The Magic Park of Dark Roses. Capriolo mostra molto presto i muscoli e si posiziona sullo sfondo lasciando la “superficie” all’alternarsi possente di suoni vintage e sintetici della Catalucci (con il suo “canto-rituale magico” sempre espressivo e seducente annesso) e alle graffianti chitarre di Spanetta. C’è spazio anche per frammenti compatti e neri alla Spettri.
Si avanza su binari massicci e scuri con Thinkin’ ’bout Fantasy, un flusso magmatico che lascia poco spazio alla luce e che mette, ancora una volta, sul piatto le abilità creative e descrittive del trio orvietano. Brava Cinzia a “vestire” l’abito multiforme creato anche dalle sue mani.
A mo’ di spensierato divertissement arriva la vivace Soul Blues e la Catalucci, in qualità di evanescente entità dialogante (o meglio dialettica), ne esce alla grande anche in questa occasione. A metà percorso, la stessa vocalist imbraccia i suoi strumenti e dà un taglio netto a quanto ascoltato sinora, catapultando il brano in territori teutonici per poi mutarlo in tensione gobliniana.
Golden dawn. Un organo eccessivamente solenne (sembra tratto dall’omonimo album dei Paternoster) ci apre le porte della traccia strumentale conclusiva. Poi è un susseguirsi di ambientazioni sonore che mutano, s’amalgamano o si scontrano. Tra magniloquenze suggestive alla Latte e Miele, fraseggi plumbei scandinavi, slanci space, policromia alla Museo Rosenbach, asperità hard rock e molto altro ancora, gli ORCO spendono le (tante) energie residue chiudendo magistralmente l’album.
L’aver detto addio a Giacomo Cocchiara non ha inciso minimamente sulla vena creativa degli Old Rock City Orchestra, capaci di sfornare un nuovo piccolo gioiello. Ormai una certezza nel panorama nazionale.
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