Infinity (1971)
Victory
Siamo nel 1971 e la piccola etichetta Victory dà alle stampe Infinity, l’unico disco dei Planetarium. Di questa band sino al 2010 non si saprà nulla (vedi bio per le due “teorie” storiche). Le uniche notizie ricavabili dal disco riguardavano il compositore dei brani, un certo A. Ferrari, svelatosi poi come Alfredo Ferrari.
Ci troviamo al cospetto di un concept album, una sorta di viaggio “evolutivo-emotivo”, dalla nascita della prima forma di vita sulla terra, alla sua evoluzione in uomo, sino alle sue emozioni contrastanti amore-guerra, per terminare con il suo abbandono della terra verso nuovi mondi su cui portare la vita.
L’album è totalmente strumentale, ad eccezione di alcuni cori privi di parole, ed è suonato ottimamente. Non vi sono personalità e strumenti che emergono sugli altri lungo i poco più di 36 minuti dell’album perché il suo punto forte è l’amalgama che si viene a creare nello svilupparsi dei brani e le varie sensazioni che essi restituiscono all’ascoltatore. Musicalmente ci troviamo di fronte ad un ottimo esempio di soft prog, con a tratti atmosfere che ritroveremo pochi anni dopo nel disco omonimo dei Ping Pong, o nei Celeste, ma non mancano però sortite nel puro prog, come nella seconda parte del brano di chiusura Infinity.
Particolare la copertina: un uomo/manichino che corre, probabilmente, verso l’infinito, con il volto coperto, quasi ad indicare che la meta è a lui sconosciuta o la sua volontà di non voler conoscere in anticipo la sua destinazione.
Il disco, dopo la pubblicazione, non fu mai pubblicizzato e quindi restò praticamente invenduto (oggi, infatti, è molto ricercato dai collezionisti).
Passiamo all’analisi dei brani. Dei tuoni, seguiti da un’esplosione, danno il via all’album con The beginning. Ci dicono che qualcosa è accaduto. La scintilla della vita sta per scoccare. A seguire un organo ed un coro molto “religiosi” danno corpo a questa sorta di “annunciazione” (si intravedono similitudini con i vari cori presenti nell’album Passio Secundum Mattheum dei Latte e Miele).
Life. Dopo i tuoni, la pioggia. Poi il brano si sviluppa in un crescendo, seguendo il cammino di questa prima forma di vita e la sua evoluzione. Dapprima con una chitarra molto leggera e un suono celestiale che le fa compagnia, quasi ad evidenziare una forma di vita “semplice”. A questi subentrano delle percussioni ed un piano con dei cori. Un nuovo stadio dell’evoluzione. L’ultimo segmento del brano diventa ancora più ricco musicalmente con, in evidenza, la batteria ed un solo di chitarra. Siamo ad uno stadio evolutivo ancora più alto.
Man (part one). Ecce homo. Un dolce arpeggio di chitarra, accompagnato da un organo, testimoniano questo nuovo stadio evolutivo.
Man (part two). L’arpeggio continua nella seconda parte del brano, supportato dalla tastiera. La melodia viene poi ripresa e portata avanti dal piano e dagli archi. Atmosfera molto suggestiva.
Love. Come titolo richiede il brano è musicalmente molto romantico (l’uomo scopre l’amore). Il tutto è affidato al piano e agli archi. A tratti sembra una via di mezzo tra un brano dolce dei Banco ed uno dei New Trolls.
Ovviamente l’uomo dopo aver scoperto l’amore scopre anche la guerra. È una sirena a dare il via a War. Siamo sotto attacco. Un basso ossessivo, una batteria e ciò che sembrano dei fiati accompagnano l’avanzata delle armate. Più in avanti esplosioni e spari di mitra. La carneficina è in atto. Musicalmente ricorda una composizione d Ennio Morricone. È indiscutibilmente il brano più intenso dell’album.
Avvio un po’ più movimentato del solito per The moon, con la batteria ed i cori in evidenza. Dura pochissimo. Tornano le atmosfere pacifiche con un coro molto beat supportato da organo ed archi. Probabilmente rappresenta il viaggio dei pochi superstiti verso la luna e il loro allunaggio in un luogo silenzioso. Intorno ai due minuti un nuovo sprazzo di “vita”, questa volta pienamente prog, ma, come successo all’avvio del brano, tale momento serve ad introdurre una parte di cori, questa volta più riccamente supportati.
Infinity. È un organo che si sfoga in qualcosa che sa di improvvisato ad aprire il brano. Suoni di synth e delle percussioni ci avvisano del contatto avvenuto con lo spazio aperto (l’uomo ha abbandonato la luna forse perché non adatta alla vita). Saranno i cori, l’organo e le percussioni poi a farci conoscere questo spazio. Nella seconda parte i Planetarium danno pieno sfogo alle loro capacità. È il frammento decisamente più prog dell’album. Da sottolineare la prova del basso di Piero Repetto, nonché della batteria e dell’organo. Il finale riprende i cori e l’organo di The beginning, quasi a lasciar intendere che i sopravvissuti sono riusciti ad approdare su di un nuovo pianeta a creare le basi per l’inizio di una nuova vita.
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