Diamo il benvenuto a Marcello Giancarlo Dellacasa (M.G.D.), Oliviero Lacagnina (O.L.) e Massimo Gori (M.G.) dei Latte e Miele. Dunque, partiamo da una città, Genova, e da due date molto vicine nel tempo, 26 marzo e 4 aprile 2014, rispettivamente conferenza stampa e presentazione “sonora” di “Passio Secundum Matthæum – The complete work”. La prima domanda è per Oliviero Lacagnina: perché in questi anni hai continuato a comporre i “capitoli” che un giorno avrebbero ampliato il racconto evangelico musicato nel 1972? Pensavi fosse un’opera incompleta o sognavi un giorno di riproporla al pubblico in una veste nuova?
O.L.: Tutte e due le cose… la vecchia “Passio” era sicuramente un lavoro incompleto, scritto nella fretta dovuta ad un contratto discografico che imponeva, subito dopo la firma, l’uscita di un Lp. Con il passare del tempo spesso ritornavo a rivedere alcuni brani per poterli, se possibile, migliorare… poi la decisione di ampliare la struttura drammaturgica della storia con l’inserimento di personaggi e composizioni nuovi lasciando inalterati i brani del ’72 (ri/incisi con le sonorità di oggi e con un coro che potesse interpretare in modo “meno lirico” dei pur bravi musicisti del Teatro alla Scala).
Con quale spirito ci si approccia al “restyling” di un’opera nata in anni musicalmente (e socialmente) diversi dai nostri e come si riesce a renderla “attuale”?
O.L.: La difficoltà era tutta nel mantenere la scrittura originale… cosa quasi del tutto impossibile dato il tempo trascorso (40 anni!) dalla prima stesura. Alcuni temi presenti nella “Passio” del ’72, nel remake, fungono da “collante” diventando un sottile filo che idealmente cerca di accorciare le distanze temporali. Crediamo di essere riusciti, anche se solo in parte, ad attenuare eventuali differenze tematiche e armoniche delle due “Passio”… confortati, del resto, da ciò che hanno scritto molti critici.
M.G.: Il punto, secondo me, è se un gruppo ha una vera identità, e non è quindi l’espressione di un unico elemento circondato da altri che si limitano al ruolo di esecutori, l’identità si evolve ma mantiene quel “marchio di fabbrica” che rende il brano riconoscibile. Ad esempio nel 2008 registrammo dal vivo , nel cd “Live Tasting” una versione di Pavana, che è del 1975 o giù di li, con molte parti diverse dall’originale. Eppure si tratta sempre di Pavana.
Numerosi sono gli ospiti che hanno prestato la propria voce in qualità di narratori (da Alvaro Fella a Lino Vairetti, passando per Silvana Aliotta e Aldo De Scalzi, solo per citarne alcuni). La presenza di tanti amici/artisti è senza dubbio uno degli elementi che arricchisce l’album. Perché avete deciso di “allargare la famiglia” e com’è avvenuta la scelta degli artisti?
O.L.: Il primo “evangelista” ero proprio io… realizzando, mio malgrado, una sorta di lettura non certo immune da inflessioni dialettali e ingenuità drammaturgiche. Memore di questa esperienza decidemmo, insieme alla Black Widow, di proporre le lettura a don Gallo che accettò con entusiasmo… non facemmo in tempo, per cui l’unica soluzione era di allargare alle voci del “prog” di allora (e di oggi) la narrazione… un modo per rendere omaggio a quanti hanno percorso il cammino di questo bellissimo genere musicale. Ovviamente abbiamo poi dedicato tutto il lavoro allo scomparso don Gallo.
L’album ha una doppia dedica: a Storm Thorgerson (progetto grafico) e don Andrea Gallo (l’intera opera). Qual è il filo che lega i Latte e Miele a questi due personaggi?
O.L.: Per don Gallo ho già detto… per quanto riguarda il progetto grafico il legame è dato dall’importanza che ebbe allora la copertina del vinile (Tallarini e Ronco ebbero un’idea che fece epoca…) e la stessa importanza che la copertina riveste oggi, con tutta la simbologia della “Passio” rappresentata in modo magistrale e raffinato.
E torniamo dunque al “Passio Secundum Mattheum” originale, il vostro esordio discografico (1972). Come nasce l’opera e qual è stata la molla che vi ha spinti verso tale tema del concept album?
O.L.: A quell’epoca avevo e ascoltavo continuamente la “Passione secondo Matteo” di Bach in una versione poco “filologica” ma di grande pathos… da lì l’idea di riproporre, con la presunzione tipica della giovane età, in un unica soluzione questa storia in un concept album. Quello che attirava, sia al sottoscritto che a Marcello (che con me condivise molte pagine), era l’azione drammatica che consentiva di sperimentare certi climax musicali che altrimenti non avremmo potuto avere… le “passioni” in genere, come gli “oratori” sono forme di teatro musicale che permettono di scavare a fondo nella psicologia dei personaggi; anche se poi il risultato non fu così, l’esperimento ci consentì una vera crescita musicale.
Il 20 febbraio del 1973 presentate l’album al Teatro Pontificio di Roma, dinanzi a papa Paolo VI. Chi è stato il fautore di questa iniziativa e quali sono le emozioni che provano tre ragazzi nel suonare dinnanzi ad un pubblico “particolare”?
O.L.: Paolo VI, invitato dalla Phonogram/Polydor, mandò un telegramma che annunciava, in sua vece, la presenza di un cardinale (forse lo stesso Segretario di Stato ma non ricordo esattamente). La cosa non diminuì l’ansia per una prestazione così importante… avevamo di fronte i vertici capitolini capitanati dal sindaco, vari prelati, frotte di giornalisti, Oreste Lionello in funzione di “evangelista”, i coristi del Teatro dell’Opera di Roma e il pubblico più giovane. Una prova di fuoco che affrontammo con una certa dose di incoscienza.
A questa esibizione seguono delle incomprensioni con parte della critica che vi definisce “filo-clericali”. Come avete vissuto questo momento?
O.L.: Si, le incomprensioni furono di varia natura a partire dall’evangelista che, cosa inconcepibile per l’epoca, “leggeva” i raccordi della storia invece di “cantarli”… una concezione figlia del retaggio operistico oggi largamente superata… e poi l’accusa, appunto, di filo-clericalismo… ma su quest’ultima c’è sicuramente l’attenuante del forte clima di contrapposizione politico/sociale dell’epoca. L’anno scorso, in occasione dell’uscita della nuova “Passio”, fui intervistato da “Radio Popolare” di Milano… all’epoca sarebbe stata pura fantascienza! Ricordo, comunque, che un po’ patimmo questa situazione (compreso l’ostracismo perpetrato dalla RAI) cercando di rimediare con una produzione meno “ingombrante” come il successivo Lp “Papillon”.
Il 1973 è appunto l’anno di “Papillon”, il vostro secondo lavoro. La prima facciata dell’album è occupata dalla suite che dà il nome all’album, la triste storia (un po’ collodiana) di un burattino dal nome Papillon. Qual è il significato “nascosto” del concept? Di certo una critica alla società…
O.L.: Il progetto nacque come una fiaba rivolta ai bambini. Strada facendo inserimmo nella storia alcune tematiche “morali” compresa l’incomprensione per il “diverso”, in questo caso “l’intruso”, sempre visto da una prospettiva favolistica (e certamente molto “collodiana”!). Ma anche qui ci sono delle evidenti simpatie per un certo teatro minimale a cui cercavamo di fare il verso… come l’”Histoire du soldat” di Stravinskij (anche in questo caso scoperto e ascoltato fino alla noia!) condito con elementi del rock d’oltremanica (vedi gli accostamenti con il trio E.L.P.).
E poi arriva Massimo Gori, è il 1974. Qual era il tuo rapporto con la band prima di entrare a farne parte in “pianta stabile” e come avvenne la decisione di entrare nel gruppo?
M.G.: Alfio ed io avevamo messo insieme un gruppo fin dalle scuole medie. Ci chiamavamo I Pargoli. Praticamente suoniamo insieme da una vita. Poi Alfio decise di passare al professionismo e io lo avrei seguito volentieri, ma i miei all’epoca furono perentori: “Prima finisci gli studi!”. Ma nel frattempo continuavo a frequentare i Latte e Miele. Andavo alle prove, feci perfino il corista in un demo della “Passio“. Dopo “Papillon” il gruppo sentì l’esigenza di avere un bassista-vocalista stabile, ed ovviamente quando me lo proposero ero ormai diplomato da un pezzo e frequentavo l’università. In pochi giorni acquistai il mio primo basso professionale, un Fender Jazz, ed iniziai a provare con la band.
Segue una fase di “crisi interna” con l’abbandono di Marcello e Oliviero, sostituiti da Luciano Poltini e Mimmo Damiani, a causa di una nuova visione musicale da seguire, al passo con i tempi che stavano mutando. Perché i Latte e Miele decidono di “svoltare” (anche se non completamente) e non proseguire assecondando in toto la propria “indole progressiva”?
O.L.: Personalmente i miei ricordi si fermano all’esperienza dell’uscita del singolo “Mese di Maggio” in collaborazione con i Dik Dik, vissuta dal sottoscritto come un vero tradimento nei confronti di un genere, come il “prog”, che consideravo il punto d’arrivo (o di partenza?) delle mie aspirazioni musicali. È lì che presi la decisione di uscire dalla band, rientrandovi, solo in studio, per incidere “Pavana” in “Aquile e scoiattoli”.
M.G.: Dopo la metà degli anni ’70 con il prog stava diventando impossibile sopravvivere. Da una parte l’ascesa dei cantautori impegnati politicamente, dall’altra le prime avvisaglie della disco music, videro scomparire dalle classifiche anche i grandi gruppi che fino a poco tempo prima le dominavano. Con l’arrivo degli anni ’80 fu la fine del sogno. Noi cercammo di adattarci e pubblicammo alcuni singoli che ebbero anche un buon successo, ma sentivamo che non era la nostra musica.
Con la nuova formazione esce “Aquile e scoiattoli” (1976). Potete illustrarci quali sono le differenze con il passato?
M.G.: Pubblicammo quel disco cercando di non rompere definitivamente col nostro passato, con “Pavana” di Oliviero sul lato B, mentre sul lato A mettemmo dei brani più immediati, che potessero essere trasmessi dalle radio, visto che “Pavana” durava circa una ventina di minuti.
Le influenze classiche che ritroviamo nella vostra musica, sia sottoforma d’ispirazione (vedi la “Matthauspassion” di Bach per “Passio Secundum Mattheum”) sia in forma esplicita (vedi le beethoveniane “Patetica” e “Opera 21”, rispettivamente in “Papillon” e “Aquile e scoiattoli”), fungono da legame tra i tre album. Qual era l’input che vi spingeva a scegliere tali composizioni e come avveniva la “trasformazione progressiva” di queste musiche?
O.L.: I Latte e Miele nascono come esecutori di musiche classiche. La presenza nel gruppo del sottoscritto, di Marcello e di Arnaldo Lombardo – ex tenore lirico e nostro produttore – ha avuto molto peso nella scelta di un repertorio così atipico. Con tutte le varianti possibili ciò si è ripetuto nei vari Lp che la band ha prodotto, sottolineando così l’impulso energico che la musica classica possiede e l’adattabilità alla “trasformazione progressiva” come dite giustamente voi. Inizialmente, nel primo anno di attività della band, i brani classici venivano riproposti senza ulteriori interventi d’arrangiamento tranne le sonorità dell’organo, della chitarra e la batteria. In “Papillon” invece Beethoven, Ciajkovskij e Vivaldi subiscono delle trasformazioni di natura armonica e ritmica che mettono in evidenza, appunto, la grande energia insita in certe pagine sinfoniche immortali.
M.G.: Probabilmente è un po’ la “ricetta” del nostro sound. Oliviero e Marcello hanno un background di studi classici, mentre Alfio ed io siamo due irriducibili amanti del rock e del pop, con pochi studi alle spalle ma una lunga gavetta come turnisti.
Gli anni ’70 sono un periodo ricco di cambiamenti socio-culturali in cui la musica è pienamente coinvolta. Numerosi sono i concerti e i Festival che si tengono in Italia e all’estero e i Latte e Miele sono piuttosto attivi su questo fronte. Ci sono ricordi e/o aneddoti che vi va di condividere?
O.L.: La band lavorò tantissimo… festival, raduni, serate, concerti… tutti i luoghi possibili dell’epoca erano a disposizione per far musica. Una voglia che all’epoca era sentita in modo completamente diverso da oggi. Il mio ricordo più intenso è certamente legato a due situazioni: “Controcanzonissima”, al Piper di Roma (sulla cui pedana si sono alternati tutti i gruppi del “prog” italiani!) e il Festival di Villa Pamphili. In ambedue le situazioni ricordo di aver sentito le vibrazioni del grande pubblico (quando suonammo noi a Villa Pamphili vi erano “solo” 30.000 persone), una vera scarica di adrenalina che ti metteva al riparo dalle paure e dalle ansie da prestazione!
Due piccole curiosità: 1) L’assonanza piuttosto esplicita tra il brano “Il pianto” della “Passio” e l’inno sovietico fin dove è voluta? 2) Nel 1976 la Grog pubblica un singolo a nome LM Special (Funky prugna / Avventura). Sembra certo che dietro tale nome si nascondano in realtà i Latte e Miele. Ci spiegate il perché di tale iniziativa e della scelta musicale un po’ “insolita”?
M.G.D.: Per quanto riguarda l’inno sovietico, non c’era nessuna intenzione, ed ho scoperto che lo era solo molti anni dopo! Abbiamo scritto questo tema di getto a casa di Oliviero durante la full immersion di una settimana per comporre la “Passio“, che avevamo detto, bleffando, alla produzione, che era già pronta! Nel testo della “Passio” c’è anche un errore “Son Re dei Giudei” Gesù non lo ha mai detto, anzi, il contrario! È stata la fretta!
O.L.: Io rispondo per “Il pianto”… la progressione armonica di questo brano la possiamo ritrovare in migliaia di brani soprattutto del periodo “barocco” (un esempio per tutti potrebbe essere il famoso “canone” di Pachelbel), per cui niente di strano. Lo strano è che quando mettemmo (in modo del tutto involontario) la melodia, essa ricalcava in gran parte quella dell’inno sovietico (un inno per altro molto bello)… in definitiva quello che per noi era solo una struttura melodico/armonica per la stampa dell’epoca era una “provocazione”… per di più all’interno di una storia sacra.
M.G.: “Funky Prugna” era nata allo studio G di Vittorio de Scalzi quasi come uno scherzo. Era una specie di presa in giro della disco che stava imperando in quegli anni, dei falsettini alla Bee Gees. La “prugna” del titolo, poi, nel nostro gergo era una parte del corpo femminile facile da indovinare. Ma una volta terminata la registrazione la casa discografica lo pubblicò ugualmente, anzi a Radio Montecarlo fu trasmesso parecchie volte.
Tra il singolo “Ritagli di luce” del 1980 (proposto anche a Sanremo), e alcune registrazioni che vedranno la luce solo nel 1992 nell’album “Vampyrs”, e il 2008, anno della reunion, le vostre carriere si dividono ma restate sempre legati indissolubilmente al mondo della musica (ad esempio, tra le varie esperienze, Alfio suona nei New Trolls, Marcello Giancarlo intraprende la carriera di concertista classico, Oliviero insegna musica e compone e arrangia musiche per altri interpreti, Massimo diventa autore di musiche per la TV). Si può dunque “vivere di musica” in Italia? E come descrivete la vostra carriera “esterna” ai Latte e Miele?
O.L.: Dopo l’esperienza dei Latte e Miele finisco gli studi al Conservatorio e mi dedico, oltre che al jazz, mio primo amore, alla musica classica sia come compositore che come direttore in concomitanza con l’insegnamento. Sono stati anni dedicati alla ricerca nell’ambito del linguaggio contemporaneo con esperienze importanti soprattutto all’estero. Molto importante, direi, l’esperienza come direttore di coro e d’orchestra, attività da cui ho imparato molto. Oggi non è facile vivere di “sola musica”, ma all’epoca le occasioni addirittura si sprecavano!
M.G.: Noi siamo riusciti a vivere di musica, ma oggi mi sembra sempre più difficile. Molti ragazzi credono che basti farsi notare ad un talent show per poter avere un futuro. Invece durano al massimo un paio di anni e tutto finisce.
Prima della “Passio 2.0” pubblicate due album: “Live Tasting” (2008), disco che immortala il vostro ritorno sulle scene e i concerti tenuti all’estero, e “Marco Polo – Sogni e Viaggi” (2009). Qual è stata la molla che vi ha spinti a tornare insieme? E come nasce il nuovo concept album?
O.L.: Dopo le continue insistenze di Alfio, che voleva che tornassimo insieme soprattutto per esibizioni all’estero (Corea e Giappone in primis), decidemmo di mettere a frutto gli anni di esperienza che ognuno aveva accumulato nell’ambito musicale. Nacque così, dopo “Live Tasting”, una produzione discografica a cui teniamo particolarmente: “Marco Polo”. Anche qui la storia affascinante di questo viaggiatore ci aveva coinvolto in modo particolare… ed è in questo CD che abbiamo riversato quel “valore aggiunto” che solo l’esperienza può dare… secondo tutti noi “Marco Polo” rimane un punto di riferimento insostituibile!
M.G.: Anche io trovo “Marco Polo” il nostro album migliore. Peccato che forse sia il meno conosciuto. Ebbe pochissima pubblicità dalla casa discografica di allora (che non era, ovviamente, la Black Widow) perché lo si voleva trasformare in un musical (in effetti ne ha un po’ la struttura, è una storia che si snoda attraverso tempi e luoghi differenti).
Com’è la situazione attuale della musica, in generale, e del Progressive Rock, in particolare, in Italia secondo il vostro punto di vista? E da cosa nasce, secondo voi, il grande successo che una band come la vostra, ma anche numerose altre (sia storiche sia contemporanee), ottiene all’estero?
O.L.: L’anima melodica che il DNA di noi italiani contiene riesce ad essere una particolarità che tutto il mondo ci invidia. Sia che si parli di musica contemporanea (i cartelloni delle principali stagioni concertistiche all’estero vedono presenze italiane sempre più numerose) sia, addirittura, di musica rinascimentale, la “cantabilità” delle nostre interpretazioni (e composizioni) ci pone ai vertici del gradimento di ascoltatori e critici. Il “prog” italiano non sfugge a questa analisi, anzi si pone subito alle spalle di quello inglese e in certi casi lo supera. Nel nostro paese possiamo contare su un retaggio ricchissimo anche in campi, come quello prettamente strumentale, per noi una volta ostici.
Un’ultima domanda è d’obbligo: progetti per il futuro?
O.L.: Esibizioni soprattutto all’estero e un nuovo CD con un’idea… ma è prematuro parlarne. Vi assicuro che sarete i primi a venirne a conoscenza!
M.G.: Top secret!!!
Grazie infinite per l’estrema disponibilità!
M.G.: Grazie per l’entusiasmo che per chi fa musica è una fonte di energia preziosa.
(Marzo 2015)
Lascia un commento