Sparkle in Grey – Brahim Izdag

SPARKLE IN GREY

Brahim Izdag (2016)

Old Bicycle Records / Grey Sparkle / Moving Records & Comics

Brahim Izdag (ma sarebbe più giusto riportare il titolo in arabo راديو إزداغ) è l’ultimo lavoro del progetto Sparkle in Grey, un album registrato nelle stesse sessioni dei precedenti “Thursday Evening” e “Idiot Savant” (quest’ultimo lavoro pubblicato in coabitazione con i Controlled Bleeding) e che, a detta della band, va letto come terzo capitolo di una trittico.

Matteo Uggeri (laptop, samples, tromba), Cristiano Lupo (basso, sax), Alberto Carozzi (chitarre, ukulele, bicycle, melodica) e Franz Krostopovic (violino, viola) dedicano l’album a Brahim Izdag, sciatore marocchino che partecipò alle Olimpiadi invernali di Albertville nel 1992. Oggetto di scherno all’epoca (la sua gara fu piuttosto “pittoresca”), lo sciatore è rivalutato dagli Sparkle in Grey come esempio di perseveranza, coraggio e forza di volontà (anche se, in realtà, lo sciatore, una volta giunto nei pressi del traguardo decise, dopo un’ulteriore caduta, di non tagliarlo).

Brahim Izdag è un album eccentricamente e coscientemente cosmopolita in cui titoli e musica permettono di realizzare un viaggio multiculturale che si snoda tra il Sud America e l’Europa, l’Africa e l’Asia, un itinerario reso tale anche dalla nutrita schiera di collaboratori: Simone Riva (batteria), Zacharia Diatta (voce), Enrico Coniglio (field recordings), Andrea Serrapiglio (musical saw), Danilo Donninelli (putipù, cat skin tambourine, castagnole), Tiziana F. Vaccaro (voce), Yan Jun (voce), Osvaldo Arioldi Schwartz (biciarpa, tubicordo).

Ma cosa suonano gli Sparkle in Grey? Si potrebbe dire semplicemente “musica non etichettabile” (in senso buono). Il gruppo è abile nel non concedere punti di riferimento e così, attraverso trame post-rock ricche di elettronica e sperimentazione, affiorano per poi scomparire tra i “flutti” trame dub e tarantelle, canti tradizionali e i Clash, tutto legato da un filo conduttore politico-sociale molto attuale.

Non si può, infine, non menzionare il particolare e coloratissimo lavoro grafico realizzato da Bernardo Carvalho che nella sua “dimensione esterna” ricorda soprattutto le numerose cadute dello sciatore.

L’album si apre con Samba Lombarda e già il titolo conferma l’elemento multiculturale (in questo caso anche piuttosto ironico, visto l’accostamento) di cui si parlava in precedenza. Sono le percussioni brasileire di Simone Riva a fungere da substrato su cui agiscono in piena libertà basso, chitarra (entrambi assumono maggior linearità col trascorrere dei secondi) e gli effetti sonori (caratteristico il fischietto da stadio). Sul finire si associa al gruppetto anche il violino di Krostopovic dal tocco fresco alla Giusto Pio.

Iurop is a madness pt. I (attempts). Dopo un primo segmento minimal-elettronico, con il canto-recitato di Zacharia Diatta protagonista indiscusso, il brano prende una fisionomia dub caratterizzata da un interessante accostamento con il violino, mentre la chitarra di Carozzi tiene ben saldi i piedi nell’atmosfera reggae. Nella seconda parte, Iurop is a madness pt. II (refuse), il clima si fa più vivo e spigoloso mentre la viola di Krostopovic accentua la sua carica malinconica. Il brano è la lettura personale di “Inglan is a bitch” di Linton Kwesi Johnson.

Le onde sulla battigia che aprono Gobbastan pt. I (arrival), brano tripartito ispirato a “Sog’inch” (canto tradizionale uzbeko), danno il via ad un suggestivo viaggio nei territori più reconditi dell’Asia centrale, un percorso mediorientale che viene “esposto” in primo piano soprattutto nel primo minuto del triplice episodio per scomparire poi a tratti tra le pieghe del prosieguo. Infatti, già in (arrival) appaiono ben presto delle distorsioni nervose alla Manuel Agnelli che mutano pesantemente il quadro. Con Gobbastan pt. II (unwelcome) subentra un forte senso di inquietudine che pervade l’intero sottocapitolo. Le percussioni secche, la chitarra ruvida e “trascinata” e il canto urlato alla Lindo Ferretti concorrono nel rendere percepibile questo stato d’animo. Anche il violino, forse l’elemento più “lineare” dell’episodio, si attiene al sentiero tracciato dai colleghi. Tutto diventa più disteso con la cullante ed evocativa Gobbastan pt. III (cohabitation).

“White Riot” dei The Clash diventa Grey Riot con gli Sparkle in Grey. Nella fresca e vivace ballata che occupa buona parte del brano s’incontrano le tarantelle del Sud Italia con elementi che rimandano alle verdi terre d’Irlanda, un turbine coinvolgente e avvolgente che richiama, ad esempio, anche un brano quale “Volta la carta” di De Andrè+PFM. Solo sul finire emerge l’“anima Clash”, l’elemento moderno e “dissacratore” che va ad incrinare volutamente il quadro.

Suoni di guerra introducono la toccante Tripoli. La sua andatura sommessa e l’ukulele “pizzicato” di Carozzi sono due tasselli che si incastrano alla perfezione con i lancinanti suoni di violino e tromba “vissuti” dal duo Krostopovic-Uggeri. Episodio poetico e drammatico allo stesso tempo.

Song for Clair Patterson. Un tuffo in pieno clima Aktuala con la world music che si fonde con la sperimentazione, tutto arricchito da dissonanze e un pizzico di follia sonora che in alcuni momenti ricorda i The Residents. Il brano è dedicato a Clair Patterson, geochimico statunitense che nel 1953 determinò con esattezza l’età della Terra (4,55 miliardi di anni) e che nella sua vita combatté una delle grandi battaglie ambientali dello scorso secolo, quella contro l’inquinamento dovuto all’aggiunta di piombo tetraetile ai carburanti, andando incontro a non pochi problemi con i “poteri forti”.

Minka Minka si rifà, invece, ad un canto tradizionale ucraino, ovviamente riletto in chiave Sparkle in Grey. Ed ecco che accanto al violino di Krostopovic, al basso di Lupo e alla melodica di Carozzi, che cercano di costruire un filo “tradizionale”, troviamo gli “scherzi” elettronici di Uggeri. In alcuni punti, quando entra in campo il rinforzo della tromba, siamo poi catapultati nelle atmosfere degli Alamaailman Vasarat.

La title-track, anch’essa suddivisa in tre parti, chiude l’album (in realtà, tecnicamente, c’è un ulteriore brano in chiusura della cui “evanescenza” si parlerà in coda). Il brano, come detto in apertura, è dedicato all’omonimo sciatore marocchino che partecipò alle Olimpiadi invernali di Albertville nel 1992 e ne ricostruisce musicalmente la gara. Brahim Izdag pt. I (rise and fall) si apre con un’atmosfera islamica alquanto vivace (la forza di volontà dell’uomo) che ben presto va ad amalgamarsi, cedendo poi il passo, a suoni occidentali più sommessi che ne descrivono l’impatto con la dura realtà della pista. Brahim Izdag pt. II (fall and rise) accentua il secondo stato della prima parte affidandosi soprattutto alle percussioni e al tenero violino. A metà percorso riemerge la forza interiore di Brahim e il brano riacquista vigore. Con Brahim Izdag pt. III (arrival) riusciamo addirittura ad ascoltare il battito del cuore di Brahim che cerca a tutti i costi di giungere al traguardo, una sofferenza estrema che emerge anche dalle corde di Krostopovic.

In coda, come detto prima, c’è There’s a riot goin’on, una manciata di secondi silenziosi che la band presenta come cover dell’omonimo brano degli Sly & The Family Stone. Un ultimo tocco stravagante di un album di certo sopra le righe, da ascoltare più volte per una sua completa, o quasi, assimilazione.

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